Riflessione di Antonio Foti Valente
In tutto l’Occidente la crescente crisi delle democrazie ha fatto riemergere un sentimento reazionario organizzato politicamente, che rivendica una sua pericolosa egemonia, dopo decenni di attesa ai margini degli archi costituzionali. Di questa destra si possono dire tante cose: che usa in modo forte l’ identità nazionale per poi servire gli interessi del capitale finanziario e smantellare i servizi pubblici in patria, che attacca l’immigrazione col solo scopo di contrastarne le vie legali col risultato di arrivare poi ad avere una popolazione di irregolari che vengono impiegati come lavoratori sfruttati, eleva il valore della famiglia tradizione ma in concreto oggi è impossibile costruire una famiglia per chi non è ricco.
Tuttavia l’onda di reazione e paura a livello internazionale non sembra arrestarsi, al contrario si rafforza, e si giova del crescente depauperamento degli argini di difesa del progresso sociale e democratico che ha garantito e migliorato nei decenni scorsi la salute delle nostre democrazie. In breve, perché a questa destra che la dinamica globale satura di contraddizione ancora più che in passato non si riesce ad opporre un’alternativa altrettanto organizzata globalmente? Perché ciò è difficile anche in Europa e appare a tratti impossibile in Italia?
Domande difficili come questa aprono la strada a risposte dolorose, relative alla crisi manifesta del modello unipolare di globalizzazione su cui si era improntata la storia post caduta del muro, e alla progressiva spersonalizzazione della dinamica produttiva globale e alla conseguente crisi di funzione che ha investito e travolto il movimento internazionale dei lavoratori tanto nella sua parte cristiana sociale, quanto in quella laica e socialista. C’è però dell’altro. Questa destra si articola attraverso forme di mobilitazione per il loro mondo inedite, che riescono ad intercettare, specie nei luoghi del disagio sociale, la solitudine cifra di questo tempo dove l’individualismo edonista che fu degli anni 80, 90 e primi 2000 si ripiega in un intimismo isolazionista ferito dallo spossessamento di ogni speranza verso il futuro.
Ed è proprio sul rapporto tra paura e speranza che è giusto interrogarsi su dove sia finito l’orizzonte del progresso. Per riprendere una citazione cara al nostro mondo, quella di Edoardo Galeano sull’utopia, viene da dire che ad ora sembrano venute meno le motivazioni per continuare a camminare. Sull’elaborazione strutturale della nuova speranza sarebbe giusto spendere fiumi di inchiostro, ma questa riflessione, senza pretese di esaustività, intende concentrarsi sul passaggio prodromico all’elaborazione strutturale, ossia sulle carenze, sul tappo nelle forme dell’organizzazione che ostacolano le energie migliori e impediscono in radice che si realizzino le condizioni per la costruzione di una nuova elaborazione politica progressista strutturale.
Sotto questo profilo, per capire ciò che manca fuori si deve prima comprendere ciò che manca in casa propria. In Italia la responsabilità storica per la ricostruzione di un campo di senso e di prospettiva ricade per forza di cose sulle spalle del principale partito progressista italiano, il Partito Democratico, erede delle culture progressive che hanno fatto la Resistenza e scritto la Costituzione repubblicana. A questo partito ha giovano l’afflato e la propulsione partecipativa innescata da Elly Schlein con il congresso che l’ha eletta segretaria, con la ripresa di rapporti politici profondi con i bastioni del mondo progressista esterni al novero dei partiti, unitamente agli sforzi coraggiosi per la costruzione di una coalizione larga e alternativa a quella del governo di destra. Rimane, tuttavia, molto da fare. I temi proposti nella mozione Schlein sulla forma del partito rimangono, a due anni dal congresso, di profonda attualità e sono anzi acuiti dal manifestarsi di una pluralità che troppo spesso appare indisciplinata e carente di solidarietà politica interna al corpo del partito e alle sue strutture. Quel partito non era nato con l’obiettivo, modesto, di federare culture politiche diverse e che, nella prima repubblica, erano state sovente avversarie, ed invece la grande sfida era quella di trovare tra quelle culture sì diverse, ma che si erano unite nel costruire la Repubblica, una sintesi nuova e fiera delle sue radici, che potesse rispondere alle sofferenze di una modernità complessa e in costante accelerazione. La ricerca di una sintesi vera e profonda tra il comunismo italiano, il socialismo e il personalismo cristiano di Mounier pone di per sé stessa la questione della forma del partito e in particolare della differenza tra partito comunità e partito elettorale.
Troppo spesso le ragioni del partito liquido si sono frapposte alla necessaria, e difficile, ricerca strutturale di quella sintesi,, lasciando spazio all’imperversare sui territori di filiere organizzate non sulla base di un principio politico, ma dell’obbedienza a un, grande o piccolo, capo. Queste filiere per continuare ad esistere devono impedire che avvenga quella riflessione profonda sulla comunità di destino che ci lega nella crisi del mondo progressista, ed infatti si attivano ferocemente in costanza o in prossimità delle elezioni, per poi sgombrare il campo il giorno dopo il voto e ridurre la comunità di partito a portatori d’acqua, buoni solo a riempire pullman o a fare presenza a chiamata. Molto si potrebbe dire su come dal governo politico di quella pluralità, attraverso una condivisione di funzioni e la valorizzazione dei territori, si gioverebbe alla ricostruzione di una alternativa di governo a questa destra. Il punto centrale rimane, però, che per riuscirci serve organizzare strutturalmente un coinvolgimento sistematico e sistematicamente plurale. Occorre ridare la parola agli iscritti senza intermediazioni, sotto questo profilo, deve dirsi che molto avrebbe avuto da dire Don Milani, spesso inopportunamente tirato in ballo, a fronte della selezione adottata per la scuola nazionale del partito. Si ha bisogno di tutti e tutti hanno bisogno di una casa dove crescere e costruire insieme l’alternativa al futuro uggioso che si prospetta. Recuperare tutti, i compagni delusi, i territori dove si perde con una sinistra non radicale ma scontenta di questa perenne ingessatura, non è solo un dovere storico ma una responsabilità fondamentale perché un gruppo dirigente possa dirsi tale, oppure rassegnarsi.
E in questo vengono in aiuto le parole dell’Ulisse di Tennyson, che Pietro Ingrao riprese in un congresso celebratosi in un momento che allora appariva difficile e di crisi come quello attuale, “noi non siamo più la forza che nei giorni lontani muoveva la terra ed il cielo, siamo ciò che siamo, un’eguale tempra di eroici cuori infiacchiti dal tempo e dal fato, ma forti nella volontà di combattere, cercare, trovare e non cedere mai”. Torniamo a combattere per costruire insieme l’orizzonte verso il quale camminare, non c’è unità senza responsabilità.
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