STRATEGIA DEL VITTIMISMO CONSERVATORE
Analisi storica e sociologica dal maccartismo ad oggi
di Claudio Loiodice
La storia moderna americana propone una riflessione sulle strategie politiche della destra conservatrice, che ricordano — non tanto vagamente — il maccartismo dei primi anni ’50. La narrazione alla base della propaganda conservatrice non è una semplice reazione psicologica delle masse stimolate dai commentatori politici; è uno strumento politicamente e strategicamente progettato, idoneo a esaltare identità collettive e a produrre, o ampliare, il consenso. Con le dovute cautele — date le differenze evidenti — queste strategie richiamano ciò che accadde negli USA tra il 1950 e il 1954. Fu una pagina molto triste per la più grande democrazia del mondo, frutto della teorizzazione del senatore Joseph McCarthy (R. Fried, McCarthyism: The Great American Red Scare, 1997). Il maccartismo ispirò, a partire dalla fine degli anni ’90, una nuova forma di vittimismo conservatore, grazie alla quale i Repubblicani mantennero il potere con G.W. Bush presidente. Nel 2001 fu infatti il suo più ascoltato consigliere, Karl Rove, a elaborare una prassi propagandistica sofisticata e pervasiva basata proprio sul vittimismo. Oggi assistiamo alla sua diffusione globale, che trova nel movimento MAGA l’espressione più evidente. Il maccartismo e la strategia di Rove non sono identici, ma condividono una logica granitica e strutturata: accusare l’avversario politico di essere un nemico interno alla nazione, quindi un traditore e un sovversivo. Osservando l’attuale clima politico, percepiamo una crescente paura sociale che favorisce i conservatori nel presentarsi come vittime delle cosiddette “élite”, ritenute ostili al capitalismo e ai valori tradizionali. Negli anni ’50 il maccartismo individuava tale nemico nei comunisti. In Italia, oggi, questa tecnica è praticata con un certo successo, sebbene i mezzi utilizzati siano spesso infantili, sciocchi e volgari, accompagnati da imbarazzanti performance pubbliche. Oggi, non essendoci praticamente più comunisti nella scena politica italiana, la demonizzazione si estende ad altre categorie: intellettuali, ambientalisti, globalisti, giudici, ONG, migranti, giornalisti, “radical chic”, e persino accademici. Secondo questa narrazione, tutti costoro — milioni di persone — complotterebbero contro la destra. Per offrire una visione più ampia parto dall’analisi del maccartismo, dalla sua struttura ideologica, dal suo apice e dal suo declino.
Questa storia insegna che le ideologie fondate sulla propaganda sono destinate a un declino relativamente rapido, ma durante la loro vita producono danni profondi nella società, attraverso una sistematica violazione dei diritti. La strategia del maccartismo si basava sul potere politico che, per mantenere il dominio, utilizzava accuse infamanti e infondate, manipolate e amplificate; liste di proscrizione; audizioni pubbliche umilianti; teorie sul “nemico interno”; fomento del sospetto nei confronti del mondo accademico, il cinema, la stampa, la magistratura e le organizzazioni civili a tutela dei diritti umani. Veniva colpito chiunque non rientrasse nella definizione di “vero americano”. Oggi assistiamo a una dinamica simile: la definizione di patriottismo viene ristretta in chiave identitaria infantile, come dimostra la retorica del “prima gli…”. Negli anni ’50 questo clima produsse una società paralizzata dalla paura. Bastava esprimere simpatia per idee progressiste, o antipatia verso i conservatori, per essere etichettati come comunisti. È esattamente ciò che accade oggi, esaltato da patetiche “ballate” sui palchi politici, dove sarebbe richiesta sobrietà. Il maccartismo trascinò gli Stati Uniti in una percezione collettiva di assedio da parte di un nemico invisibile, il comunismo: un perfetto esempio di “vittimismo del potente”. L’apice della propaganda si ebbe tra il 1953 e il 1954. Con il dominio quasi assoluto dei Repubblicani nei due rami del parlamento, si instaurarono vere e proprie gogne pubbliche; commissioni speciali si dedicarono a “smascherare comunisti”, distruggendo carriere, censurando film e opere letterarie, espellendo accademici (D. Caute, The Great Fear, 1978). Un déjà-vu inquietante. La retorica utilizzata era semplice ma ferocemente efficace: “chi non è con noi è un comunista, quindi una minaccia alla nazione”. La stessa logica oggi sopravvive nello slogan grottesco “Chi non salta comunista è!”. L’efficacia di tali strategie, tuttavia, si esaurisce: la “caccia alle streghe” non offrì alcun beneficio concreto alla percezione di sicurezza del popolo, che col tempo si accorse dell’assenza di prove. Nel 1954 il Senato censurò McCarthy e l’opinione pubblica lo abbandonò (U.S. Senate Resolution 301, 1954). Questa retorica implose perché irrealistica. Tra il 1980 (G. W. Domhoff, The Powers That Be, 1983) e il 2000 (H. T. Williams, The Bush Tragedy, 2007), imparando dalla disfatta del maccartismo, la destra americana mutò strategia: dalla caccia al nemico passò a rappresentarsi come vittima. Fu Karl Rove a codificare questa nuova tecnica politica. In sociologia si direbbe che, non viene narrata la realtà, ma un suo surrogato: una simulazione artificiale costruita per indurre l’elettorato a credere che la destra sia il bersaglio di una persecuzione. In questo contesto la critica degli intellettuali viene vista come irrilevante, tardiva e interpretata come prova stessa del complotto delle “élite”. In sintesi, la destra ha bisogno di narrarsi come gruppo oppresso dalle élite culturali. Questa strategia — molto più efficace del maccartismo — progredisce da oltre 40 anni. Non ha bisogno di un vero nemico: basta inculcare il senso di pericolo.
Il “vittimismo politico” descrive, ad esempio, le università come covi ostili ai conservatori; i sociologi — secondo una ricerca americana condotta proprio da ambienti conservatori — sarebbero progressisti al 98% e dunque “naturalmente” oppositivi. La magistratura diventa un potere persecutorio; i giornalisti produttori di fake news; scienziati, medici e climatologi creatori di “false emergenze”; le minoranze, presunte privilegiate; le organizzazioni internazionali (UE, ONU, ONG, Corti) strutture ostili ai conservatori. La logica è sempre: “loro ci combattono, noi ci difendiamo”. Esattamente come nel maccartismo, solo che allora il nemico era uno solo. Non bisogna sottovalutare il vittimismo politico: non è una deriva spontanea, ma una tecnica precisa di ricerca del consenso. Se questo sistema conquistasse il controllo delle fonti culturali e comunicative, l’intera società potrebbe scivolare verso una pericolosa deriva antidemocratica. Il vittimismo politico è una forma sociale dotata di struttura simbolica ed emotiva. Per comprenderlo occorre ricorrere a concetti sociologici espressi da grandi autori. Durkheim affermava che ogni società costruisce i propri confini attraverso rituali che separano sacro e profano: NOI e LORO (É. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, 1912). La retorica del vittimismo trasforma l’avversario politico in una minaccia alla morale collettiva, dunque un “profano” da combattere. Questi gruppi vengono sacralizzati negativamente: diventano necessari a cementare la coesione interna dei conservatori. In tali contesti non si ricerca la verità, ma la compattezza identitaria, anche a costo di alterare la realtà. Goffman sostiene che le interazioni sociali sono filtrate da frame cognitivi attraverso cui definiamo ciò che è reale, minaccioso e legittimo (E. Goffman, Frame Analysis, 1974). Karl Rove ha creato un frame potentissimo: “Noi siamo le vittime morali; loro — le élite — hanno manipolato la realtà”. Queste strategie si sovrappongono al populismo, quando entità diverse si coalizzano contro un “nemico” comune (E. Laclau, On Populist Reason, 2005). Jonathan Haidt sostiene che le persone non sviluppano idee politiche partendo dai fatti, ma da intuizioni morali anteriori (J. Haidt, The Righteous Mind, 2012). La sua teoria delle fondazioni morali spiega come lealtà, purezza, autorità e moralità diventino strumenti narrativi per costruire un conflitto. Pertanto, il sentimento legittimo di lealtà si trasforma in “LORO contro NOI”; il principio essenziale di autorità si riduce a difesa delle tradizioni. La purezza d’animo si trasfonde nella difesa della NAZIONE come corpo morale minacciato. René Girard insegna che le società gestiscono le proprie tensioni attraverso il “capro espiatorio” (R. Girard, La violenza e il sacro, 1972). Attribuire ad altri la responsabilità dei problemi interni ad una nazione, per scaricare le tensioni interne alla società. Il vittimismo permette al conservatore di recitare la parte della vittima per esercitare, occultamente, il ruolo del carnefice, a questo punto legittimato.
Foucault afferma che la verità non è ciò che corrisponde ai fatti, ma ciò che una società organizza come regime discorsivo dominante (M. Foucault, Ordine del discorso, 1971). Hannah Arendt scriveva che “la menzogna politica non cerca di convincere, ma di distruggere la realtà condivisa, quando la verità viene svuotata, il cittadino diventa vulnerabile alla propaganda” (H. Arendt, Verità e politica, 1967). Infine, Zygmunt Bauman, nella modernità liquida, analizza la “paura liquida”: una paura senza oggetto preciso, pronta a essere indirizzata (Z. Bauman, Paura liquida, 2006). È di questa paura che il vittimismo conservatore si nutre. Il vittimismo diventa così una forma di gestione collettiva dell’ansia nella società liquida: un collante identitario semplice e rassicurante.
Questo contributo non vuole essere un attacco di parte, ma una lettura sociologica che, partendo dai dati storici, tenta di spiegare comportamenti delle destre conservatrici quando queste appaiono privi di equilibrio e di buon senso. Anche se — lo riconosco — provengono da chi, come me, appartiene a quel famoso 98% di sociologi progressisti.
Novembre 2025

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